mercoledì 7 febbraio 2007

La Circe della Versilia

FORTE DEI MARMI
— SEMBRAVA PROPRIO fosse lui. Una rapina ad un parrucchiere di Livorno, il riconoscimento da parte di un complice, l’incriminazione consegnatagli in carcere, dal quale era uscito solo per un permesso premio. E poi quella zoppìa, retaggio di un salto disperato dalla finestra per scappare, anni prima, agli agenti che venivano ad arrestarlo. Sembrava proprio fosse lui, il rapinatore dei parrucchieri. E invece...«Non sono stato io, non ho fatto quella rapina, quel giorno, è vero, ero in permesso, ma mi trovavo dai miei genitori in provincia di Latina», aveva gridato con forza agli ex commilitoni dell’Arma che gli notificavano il provvedimento nella sua cella del carcere di Porto Azzurro. «Non sono stato io!». Le stesse parole di diciotto anni fa. Stavolta, però, il giudice gli ha dato ragione: assolto per non aver commesso il fatto. Ma ciò non è bastato ad evitargli un piccolo ritorno sotto i riflettori della cronaca, gli stessi che 18 anni fa lo avevano accecato, prima di consegnarlo all’oblio dell’ergastolo.
SI CHIAMA Carlo Cappelletti, è un ex carabiniere a cavallo, ha 43 anni ed è detenuto appunto nel carcere di Porto Azzurro, all’isola d’Elba. Qui, sta scontando la condanna a vita per un fattaccio di sangue accaduto a Forte dei Marmi nell’estate del 1989. Ovvero: l’uccisione di un facoltoso personaggio, Luciano Iacopi, sventrato da 17 coltellate nel garage di casa. Al termine di un lungo processo indiziario, i giudici lo hanno ritenuto responsabile di quell’omicidio insieme alla propria amante, la moglie della vittima. Nome: Maria Luigia Redoli. Ricordate? I giornali la chiameranno poi la Circe della Versilia, ma prima di quella sera tragica Maria Luigia era soltanto la vistosissima moglie di Luciano Iacopi, un ricco possidente immobiliare versiliese che tutti, nella zona, conoscevano come Gasperello.Lo Iacopi è un personaggio controverso. Ha 69 anni, un carattere ruvido come una maglia infeltrita e pochissimi amici. In compenso, una folla di gente lo odia per l’arroganza e la spilorceria con la quale gestisce il proprio patrimonio. Qualcuno lo accusa addirittura di usura. Tant’è. Per dare un’idea del suo indice di gradimento, quando si candida per il Psdi alle comunali, non prende neppure un voto. Neppure il suo.Rude e odiato, Iacopi ha un’amante di Follonica, Agata Tuttobene. L’ha conosciuta grazie agli annunci che settimanalmente invia alla rubrica «cuori solitari» della Pulce. «Vero e antico Gentiluomo, cerca compagna per...».
MARIA LUIGIA, invece, all’epoca ha 51 anni. I capelli biondo platino da fare invidia a Paris Hilton, abiti quasi sempre stretti da vamp, auto di grossa cilindrata e grandi occhiali scuri a coprirle il volto, ama la vita di lusso e non fa niente per nasconderlo. Anzi. Venticinque anni prima ha sposato lo Iacopi proprio per questo. Fra i due non corre amore, forse non ne è mai corso. E gli amanti, per lei, sono come i diamanti: le piacciono di grossa caratura, meglio ancora se in divisa. Si è così accompagnata negli anni a un poliziotto, a un vigile urbano, a un notaio, da un carabiniere ha perfino avuto i due figli, Tamara e Diego, che tutti, fino alla tragedia e al gossip mediatico che ne seguirà, credono invece dello Iacopi. In quella drammatica estate del 1989, dunque, questa Circe di periferia si è da qualche tempo presa una sbandata per un carabiniere a cavallo di 23 anni, Carlo Cappelletti appunto. I due si sono conosciuti durante un raduno alla Versiliana, e la passione fra di loro è esplosa immediata. Dionisiaca e ultima. Poco importa che fra loro corrano ben 28 anni di differenza. Maria Luigia è fatta così. Vive le sue passioni con l’irruenza di un’adolescente, e le espone alla luce del sole come fa una diva di Dallas, condividendole anche con i propri figli. Il 16 luglio del 1989, la sera che cambierà la sua vita, è appunto in auto con Tamara e Diego. Ha trascorso la serata alla Bussola in compagnia di Carlo, e ora, alle 2 di notte, dopo avere accompagnato l’amante in albergo al Lido di Camaiore, torna a casa con i figli. Scende dalla Maserati per aprire la porta del garage, si blocca, e torna indietro. La frase che consegna ai due figli è alle cronache è scarna e didascalica: «Vostro padre l’hanno ammazzato, andiamo dai carabinieri». E’ da quel momento che ha inizio il Giallo della Circe e del suo amante carabiniere.
LORO MOSTRERANNO subito un alibi di ferro («Eravamo a ballare alla Bussola nell’ora dell’omicidio») ma gli inquirenti li metteranno lo stesso nel mirino, svelando storie a metà fra l’orrore di provincia e il grottesco. Sotto il letto della figlia Tamara (una copia carbone della madre) verranno trovate foto di Iacopi con tanto di spillone conficcato («Ma si sa, spesso i figli odiano i padri»). Si verrà a sapere che la Redoli, tempo prima, si era rivolta a un mago per chiedere prima fatture e sortilegi poi, più concretamente, un killer per far morire il marito («Ma voglio indietro i miei soldi perché altri hanno fatto quel lavoro», dirà poi lei al telefono col ‘mago’). Indizi pesanti, insomma, ma nessuna prova. In primo grado i giudici li assolveranno, fra le lacrime di gioia di lei e di lui («ha vinto la verità, siamo felici»), ma la Corte d’appello e poi la Cassazione ribalteranno tutto: ergastolo a entrambi. Addio sogni di amore, passione. Addio Dallas, Paris Hilton di periferia, amanti, passioni e maghi.
LEI, GRIDANDO la propria innocenza, finisce nel carcere di Perugia, dove annuncia la fine del rapporto con Cappelletti («ci siamo scritti ma è tutto finito») prima di essere allontanata nel 2002 per una storia confusa di veleni e sesso dietro le sbarre. I figli, che fino alla condanna definitiva erano stati vicinissimi alla madre (Tamara aveva addirittura rischiato l’incriminazione per sostenere l’alibi della madre), rompono i rapporti e ottengono contro Maria Luigia una sentenza di «indegnità» che li ha resi unici eredi del patrimonio miliardario di Iacopi. Resta Cappelletti. Recluso all’isola d’Elba anche lui continua a gridare la propria innocenza. Su tutto. Dall’omicidio Iacopi al furto del parrucchiere di Livorno. Peccato che i giudici gli abbiano creduto solo sul reato minore.
Quello che non distrugge una vita.

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